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La bioeconomia si è fatta grande: crescono anche gli affari

C’è un settore in cui l’Italia cresce anche di questi tempi e che, anzi, la pandemia di Covid-19 potrebbe addirittura aver accelerato. Questa, ha infatti reso ancora più evidente la necessità di ripensare il modello di sviluppo economico in una logica di maggiore attenzione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. Qui entra in gioco la bioeconomia, il sistema che utilizza le risorse biologiche terrestri e marine, così come gli scarti, come risorse per l’alimentazione, la produzione industriale e di energia. La sua natura e capacità di creare filiere integrate nelle aree locali e di restituire, grazie a un approccio circolare, elementi nutrienti al terreno la pongono come uno dei pilastri del Green New Deal lanciato dall’Unione europea. Parte del rilancio è anche il biotech, con il ruolo cruciale svolto dalle biotecnologie sia nell’innovazione agroalimentare sia nella ricerca farmaceutica, anche contro il Covid-19. «Nel 2018 l’insieme delle attività connesse alla bioeconomia in Italia, che includono sia la gestione e il recupero dei rifiuti biocompatibili, sia il ciclo dell’acqua, ha generato un valore di circa 345 miliardi di euro, con oltre due milioni di persone occupate — dice Stefania Trenti, responsabile Industry research Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, che ha condotto con Assobiotec la sesta edizione del Rapporto sulla Bioeconomia in Italia e in Europa —. Secondo le nostre stime il valore della produzione della bioeconomia nel 2018 è cresciuto di oltre 7 miliardi rispetto al 2017, un incremento del 2,2%». Molti dei comparti afferenti alla bioeconomia sono stati classificati come attività essenziali anche durante la fase di lockdown e sono tra i settori che hanno retto meglio. Si tratta inoltre di aree rappresentate nella tassonomia europea per la finanza sostenibile e quindi si stima una crescita continua anche nei prossimi anni.

La classifica

L’Europa occupa una posizione di rilievo nell’agrifood mondiale, con una quota di mercato del 16,8%, che sale al 20,4% per alimentare e bevande. Questo dato pone il Vecchio Continente al vertice della classifica internazionale, davanti a Cina (18,9%) e Stati Uniti (15%). L’Italia è al terzo posto in Europa per valore della produzione, dopo Germania (414 miliardi) e Francia (359 miliardi), e prima di Spagna (237), Regno Unito (223) e Polonia (133). Anche per quanto riguarda il numero di occupati nella bioeconomia l’Italia è terza, con poco più di 2 milioni di addetti, dopo la Polonia (2,5 milioni, soprattutto nel settore agricolo) e la Germania (2,1 milioni). Nel nostro Paese il sistema agro-alimentare ha un peso sul totale europeo del 12% in termini di valore aggiunto e del 9% in termini di occupazione. La produzione agro-alimentare italiana è caratterizzata da un lato da una maggior specializzazione in prodotti ad elevato valore aggiunto, e dall’altro da prodotti di maggiore qualità. Due i temi centrali: l’economia circolare, con tutto ciò che concerne la gestione e il riutilizzo dei rifiuti della filiera e dei consumatori finali; e la sostenibilità, legata sia al modello produttivo, sia a quello di consumo. «Abbiamo analizzato 16 mila imprese della filiera agroalimentare italiana — dice Trenti —. Quelle con certificazione biologica hanno registrato una crescita del fatturato maggiore delle altre tra il 2008 e il 2018: il 46%, rispetto al 25% delle società che non hanno la certificazione bio. È un circolo virtuoso, un ottimo riscontro in termini di mercato e reddittività».

I rifiuti organici

Ogni livello della filiera agroalimentare produce inoltre rifiuti di diversa natura e in quantità mutevoli. Nel complesso in Europa i rifiuti agroalimentari prodotti dalla filiera ammontano a 87 milioni di tonnellate, 171 chilogrammi pro-capite. A incidere di più sono le famiglie (33 milioni di tonnellate, pari al 38% del totale e a 65 chili pro-capite), segue la trasformazione industriale (24 milioni di tonnellate, 28% del totale) e quindi il settore agricolo (17 milioni di tonnellate, 20% del totale della filiera). Nei rifiuti domestici, quelli organici raccolti dipendono dalla diffusione e capillarità dei sistemi di raccolta differenziata e in particolare dall’adozione della raccolta separata della frazione umida. Germania e Italia mostrano i valori più elevati con rispettivamente 121 e 107 chili per abitante. «L’Italia ha sviluppato buone pratiche ed esperienze innovative — dice Laura Campanini, responsabile Local Public Finance alla direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo—. In alcuni territori ha ottimizzato virtuosamente la raccolta differenziata, il riciclo e il riutilizzo dei biocomponenti. È necessario passare dall’idea del rifiuto da smaltire a quello di risorsa da valorizzare, i rifiuti organici sono una fonte importante di biomassa ma devono essere raccolti in modo differenziato e trattati in modo adeguato. La dotazione di impianti e gli assetti normativi e regolamentari sono cruciali per garantire la chiusura del cerchio in modo sostenibile».

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